giovedì 5 luglio 2018

“La Chemioterapia è Cancerogena: l’Oms lo conferma”

Sembra una barzelletta, purtroppo è tutto vero: la chemio è cancerogena. Sì, avete letto bene: la terapia che dovrebbe curare i tumori, in realtà in alcuni casi è un agente che ne scatena l’insorgere.
In realtà, c’è da dire che già da tempo si conoscono gli effetti collaterali di questa cura.
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Per fare un esempio, già nel 1938 il farmaco DES, usato principalmente per curare il cancro alla mammella, era stato messo in discussione per i suoi noti effetti collaterali, anche nel lungo termine. Tuttavia, il DES uscì fuori commercio solo nel 1970, sostituito dall’altrettanto discusso TAMOXIFEN. A proposito di TAMOXIFEN, il ricercatore canadese Pierre Blais lo descrive come “farmaco spazzatura che si pone ai vertici del mucchio di immondizia”, poiché promotore di cancri particolarmente aggressivi all’utero e al fegato, nonché responsabile di fatali coagulazioni di sangue e ostacolo ad altre numerose funzioni. É sconcertante pensare che tutti quei milioni di donne che decidono di curare il cancro alla mammella con chemioterapie, allo stesso tempo stanno inconsapevolmente assumendo sostanza classificate come cancerogene.
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Come se non bastasse, una statistica condotta dall’OMS in unione con l’American Cancer Society, quantifica il reale beneficio della chemioterapia in una media di appena il 2,2%. Come dire: i rischi sono di gran lunga maggiori dei reali effetti positivi.
A tutto questo, c’è una spiegazione scientifica.
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La chemioterapia distrugge il DNA di tutte le cellule che si dividono velocemente. Le cellule cancerogene si dividono rapidamente. Ma anche le cellule del sistema immunitario si dividono rapidamente! La chemio, in sostanza, distrugge anche l’unica cosa che può salvarci la vita! Questo avviene perché nel nostro corpo una stessa proteina funzionale (come quelle attivate dalla chemioterapia) può svolgere compiti completamente diversi in distretti diversi del corpo. Sono i famosi “effetti collaterali”. A volte possono essere leggeri; altre volte, come nel caso della chemio, possono essere devastanti.
Altro dato interessante: la chemioterapia non distruggerà mai il 100% delle cellule cancerogene. Al massimo potrà eliminare dal 60% all’80% (nel più ottimistico dei casi!) delle cellule cancerogene. Il “resto” del lavoro è svolto dal nostro sistema immunitario.
La domanda ora sorge spontanea: perché è stato possibile continuare a curare i malati di cancro con la chemio per così tanto tempo, senza cercare una soluzione alternativa?
Pigrizia? Ignoranza? Interessi “maggiori” di quelli dalla salute delle persone (dato che un trattamento chemioterapico può costare al Sistema Sanitario Nazionale anche mille euro al giorno)? Forse a questa domanda non avremo mai una risposta. E allora facciamone un’altra: esiste davvero una soluzione alternativa per la cura del cancro?
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Per trovare una risposta, bisognerebbe prima capire cos’è il cancro. Secondo il professor Giuseppe Genovesi, ricercatore universitario presso il Policlinico Umberto I di Roma e presidente del PNEI: «Bisogna riconsiderare l’uomo non più come un organismo biochimico, ma come un organismo biofisico. Le nuove scoperte della Fisica Quantistica ci dicono che noi siamo costituiti sì da atomi, molecole, ma ci dice anche che questi atomi e queste molecole non sono altro che la manifestazione di una determinata frequenza di energia. Il cancro è il risultato di un’alterazione delle frequenze del nostro corpo, che causa un errore informazionale nelle nostre cellule, facendole ammalare. Se quindi guardiamo all’uomo come a un campo energetico costituito da fotoni e non più come a un semplice aggregato di atomi, è chiaro che si può guarire semplicemente ripristinando i corretti flussi di energia nel nostro corpo, in modo tale che le cellule malate riacquistino le giuste informazioni e ripristino le loro corrette funzioni.»
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E chi legge le “informazioni” che riceviamo dall’esterno? Per decenni si è creduto che i nostri geni fossero responsabili della nostra salute. Se un genitore era morto di cancro al polmone, lo stesso destino avrebbe potuto attendere suo figlio. Ma non è così. Uno studio condotto dalla università di Montreal ha evidenziato che su 100 donne con cancro al seno, solo 7 trasmetteranno il gene malato alle proprie figlie. E tra le figlie portatrici del gene malato, non è detto che tutte si ammaleranno di cancro. E lo stesso ci insegna lo scienziato americano Bruce Lipton: non sono i geni a farci ammalare, ma il modo in cui il nostro corpo interpreta gli stimoli ambientali. Per questo Lipton parla di “Biologia delle credenze”. La nostra mente inconscia elabora ogni secondo oltre 4 miliardi di informazioni e risponde ad essi in base a come è stata programmata.
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Come ci ricorda anche il Dr. Marco Fincati, ideatore del Metodo RQI®: «È la nostra mente inconscia che controlla il 95% delle nostre funzioni. È lei che regola la respirazione, la digestione, il battito cardiaco, la pressione arteriosa. È lei che “legge” le informazioni dell’ambiente  e attua meccanismi di risposta appropriati. Allo stesso modo, è lei che sa quali frequenze sono giuste per noi. Possiamo quindi comprendere quanto sia importante imparare a comunicare con la mente inconscia, se vogliamo prendere piena consapevolezza della nostra vita. Imparare a comunicare  con la nostra Mente Profonda è infatti l’unico modo per determinare autonomamente se i flussi di energia nel nostro corpo sono corretti o scorretti. Le cellule impazzite del cancro non sono altro che cellule che hanno ricevuto frequenze sbagliate. Ridando loro le giuste informazioni, esse possono riappropriarsi della loro corretta natura e ripristinare tutte le loro funzioni.»
Da quali risorse possiamo attingere per ridare le giuste frequenze al nostro corpo? Il Metodo RQI® lo fa a partire da tre soluzioni, che lavorano sui tre differenti “livelli” che costituiscono l’essere umano: la materia, l’energia e lo spirito.

lunedì 9 aprile 2018

L’ORTORESSIA: QUANDO MANGIARE SANO DIVENTA UN’OSSESSIONE

L’ortoressia può essere definita come l’ossessione psicologica per il mangiare sano.
Il termine, che è stato coniato per la prima volta da Steven Bratman nel 1997, deriva al greco Orthos (giusto) e Orexis (appetito) e sta proprio ad indicare un’attenzione esagerata al cibo, alle sue caratteristiche, alle regole alimentari, come una sorta di salutismo estremo. Questo disturbo si inserisce bene nel contesto sociale attuale, nel quale prendono sempre più piede le cucine macrobiotiche e quelle biologiche, giusto per portare qualche esempio. Molto spesso, inoltre, l’ortoressia si basa su convinzioni derivanti da informazioni non verificate e accertate, ma solo “sentite dire”, derivanti dall’immaginario comune o di tendenza.
Vi è certamente differenza tra il voler seguire un’alimentazione salutare e il bisogno assoluto di assumere esclusivamente “cibi sani”, dove l’attenzione è fortemente focalizzata sulla qualità, che è determinata da criteri indiscutibili ed estremamente rigorosi. Come per tutti i disturbi, anche in questo caso è il livello, l’estremismo, a fare la differenza. A tal proposito, secondo Brytek-Matera (2012), l’ortoressia si distingue per alcune caratteristiche peculiari:
  • passare anche 3-4 ore al giorno a pensare a quali cibi scegliere, a come prepararli e consumarli;
  • avere comportamenti eccessivi nella selezione, nella ricerca e nella predisposizione degli alimenti, che comprendono: pianificare i pasti con giorni di anticipo (per evitare quelli ritenuti dannosi); perdere una grande quantità di tempo nelle preselezione e nell’acquisto dei cibi, a discapito di altre attività; preparare e cuocere gli alimenti secondo regole e procedure specifiche ritenute maggiormente salutari;
  • provare insoddisfazione affettiva e isolamento sociale causati dalla persistente preoccupazione e dalla rigidità psicologica e comportamentale legate al perseguimento delle regole alimentari autoimposte.
È chiaro come l’ortoressia influisca su tutti gli ambiti della vita dell’individuo, da quelli psicologici a quelli sociali.
In particolare, sono caratteristici il senso di colpa che scaturisce nel momento in cui non si seguano le regole e, dall’altro lato, la percezione di controllo su sé ottenuta solo dall’attenersi alle stesse, entrambi presumibilmente collegati a uno stato ricorrente di tipo ansioso. L’ortoressia, inoltre, conduce a una vera e propria forma di fanatismo alimentare, per cui si entra in un complesso di superiorità basato su aspetti concernenti il cibo, che porta a disprezzare coloro che non mangiano in modo ritenuto non sano. Tutti questi aspetti possono portare al ritiro sociale, che si esprime, ad esempio, nell’evitamento di situazioni sociali in cui non sarebbe possibile adeguarsi alle proprie norme (dall’uscita al ristorante alle ricorrenze quali il Natale), o alla rottura di rapporti con altre persone non ritenute “all’altezza” secondo i propri ideali.
Oltre che sul benessere emotivo e sociale, l’ortoressia ha conseguenze anche a livello corporeo. L’assunzione nutrizionale esclusiva ed eccessivamente restrittiva può portare problematiche quali, ad esempio, squilibri elettrolitici, avitaminosi, osteoporosi e atrofie muscolari. Questo disturbo è inoltre spesso associato ad altre problematiche di tipo ossessivo, come quelle riguardanti l’esercizio fisico, la pulizia, le malattie.
Per concludere, l’ortoressia è un disturbo che può avere serie ripercussioni sul funzionamento globale della persona. Ricercare un corretto stile alimentare è fondamentale per la salute dell’individuo, ma può diventare un problema nel momento in cui ci si imponga una serie di regole imprescindibili cui è necessario attenersi sempre e comunque per evitare conseguenze terribili. Sarebbe opportuno mantenere sempre un certo grado di flessibilità nei propri modi di pensare e di comportarsi, tenendo presente che non esiste il “giusto” assoluto, ma che il benessere è dato proprio dalla capacità di adattarsi alle diverse condizioni in cui ci si può trovare.